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Dopo la vittoriosa competizione elettorale di Obama per la presidenza degli Stati Uniti, i giornali erano pieni di sue fotografie. Tante sorridenti, alcune luminose, ma nessuna d'impatto come i fotogrammi delle sue lacrime. È successo quando si è soffermato, nel suo discorso dopo la vittoria, a ringraziare i volontari per l'aiuto che gli hanno dato. Quelle dita che cercano di far scivolare via il segno della commozione lasciano un interrogativo di stupore. Come può, chi ha vinto, mostrarsi cosí emotivamente umano? Può, perché quello è il momento della condivisione: ciò che "il presidente" vive appartiene anche agli altri, diventa il collante di speranze ed emozioni, riassume la voce di tutti coloro che l'hanno sostenuto. Di piú, è il riconoscimento che senza di loro, i suoi sostenitori, lui non ce l'avrebbe fatta. Le sue potevano essere parole di rito, entusiaste e trionfanti come spesso accade in episodi del genere. Parole che dimenticano, già mentre vengono pronunciate, le esigenze del ruolo, ossia un servizio alla gente che l'ha eletto. Nei discorsi di insediamento vince sempre la retorica di quanto è difficile l'impegno assunto, quale sacrificio richieda, o quale responsabilità versi sulle spalle di un'unica persona: parole vuote, buone solo per esaltare le emozioni piú immediate. Poi, spente le luci, cominciano i guai, per la gente non per chi è stato eletto (l'incipit dell'editoriale di Igino Canestri). |
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